La corruzione privata
La corruzione privata
July 1, 2019 No Comments on La corruzione privataDi seguito pubblichiamo le riflessioni scientifiche che hanno portato all’organizzazione del primo convegno i-BEC che si terrà il prossimo 16 luglio a Roma presso la sede del CNEL.
Tutti i principali studiosi che si sono occupati della fattispecie della corruzione tra privati dai suoi albori hanno sempre riconosciuto il principale, o comunque tra i principali, limiti all’effettività della fattispecie, nonché tra le principali disallineamenti della normativa italiana in materia, la previsione del regime di procedibilità di ufficio del reato.
Questo limite ha comportato una sostanziale disapplicazione in sede giudiziaria, visti i rarissimi casi di denunce da parte delle società di appartenenza delle persone fisiche dei corrotti, ma anche profonde difficoltà nell’individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 2635 c.c.
E così, tra dibattiti dottrinari dilanianti a fronte di modifiche normative inadeguate, la previsione della norma, finora, è rimasta pressoché lettera morta.
In questa occasione di riflessione, ci si interrogherà sulle possibili evoluzioni del dibattito e sui nuovi auspicabili scenari applicativi della norma determinati dall’eliminazione della procedibilità a querela del reato e dall’espulsione dall’art. 2635 del comma 5 che prevedeva, quale unica ipotesi di procedibilità d’ufficio, quella in cui dal fatto fosse derivata una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni e servizi.
Partendo dall’affermazione, oramai abbastanza incontrovertibile, del valore pubblicistico del bene tutelato dalla norma, si vedrà come, all’indomani della riforma introdotta dalla L. 3/2019, la fattispecie non solo possa finalmente essere pienamente applicabile ma possa essere finalmente essere letta in maniera coerente e sintonica con la normativa sulla responsabilità degli enti privati, con la disciplina commerciale dell’impresa e delle società, ma anche con le evoluzioni delle più moderne dottrine aziendalistiche.
Si vedrà, in particolare, come, alla luce del nuovo assetto normativo, non trovino più spazio zone franche per patti corruttivi “autorizzati” dall’ente del corrotto posto che il superamento del brocardo “societas delinquere non potest” e l’impianto normativo relativo alla responsabilità da reato degli enti, non consentono di parlare di patti corruttivi autorizzati dall’ente ma tutt’al più di patti assentiti da persone fisiche dell’ente (per ipotesi anche da superiori del soggetto corrotto), patti che qualora integrino gli estremi di un reato presupposto, in presenza di un vantaggio e/o di un interesse patrimoniale dell’ente e degli altri requisiti richiesti dal D. Lgs. 231, potrebbero comportare responsabilità dell’ente.
D’altro canto, in ambito aziendalistico, l’abbandono della teoria dell’agenzia in favore di quella dell’entità, fa emergere come giammai il conseguimento di profitti in violazione delle norme di legge può considerarsi coerente con l’interesse primario dell’azienda “a soddisfare i bisogni dei clienti [utenti nel caso di una PA o beneficiari nel caso di una non-profit] attraverso la produzione di beni e servizi utili e a creare valore sostenibile nel breve, medio e lungo periodo”. “Creare valore sostenibile significa realizzare profitto oggi e domani, e renderlo compatibile con le responsabilità sociali e ambientali che l’azienda si è assunta verso tutti i suoi portatori di interessi. Il profitto non è il fine dell’azienda, ma una condizione importante per la sua sopravvivenza e il suo sviluppo. L’azienda deve fare profitto perché senza di esso non sarebbe in grado di sopravvivere, ma questo non è, in senso stretto, il suo scopo, che resta sempre il soddisfacimento dei bisogni dei clienti, di oggi e di domani, attraverso la produzione di beni e servizi utili. Non essere profittevoli mette a rischio il soddisfacimento dei bisogni futuri e la stessa continuità aziendale, ma il profitto deve essere compatibile con il rispetto della legge e dell’etica”.
Questa moderna concezione aziendalistica porta a mettere al centro l’interesse primario dell’azienda e a stigmatizzare, all’interno dell’organizzazione aziendale, situazioni nelle quali questo interesse possa confliggere con quello al profitto dell’azienda: si pensi al caso di profitti generati attraverso corruzione o producendo disastri ambientali. In queste situazioni, l’agire in contrasto con la legge e con l’etica, pur nel caso in cui determinasse profitti economici – e, nel caso di società per azioni, un aumento di valore delle azioni – sarebbe comunque in contrasto con l’interesse primario dell’azienda e, dunque, inaccettabile per l’azienda.
Anche alla luce di questa ricostruzione aziendalistica, dunque, si giunge alla conclusione che, in particolare rispetto ai patti corruttivi tra privati, di cui si interessa la presente analisi, un patto corruttivo non potrà mai considerarsi “assentito” dall’ente di appartenenza del corrotto (né dall’ente del corruttore) e sarà sempre in conflitto con l’interesse primario dell’azienda, anche in ipotesi in cui da patto derivino vantaggi economici/profitti per l’ente del corrotto (come del corruttore).
Nelle ipotesi, in sé le più insidiose, nelle quale pure l’azienda stessa del corrotto avesse tratto profitti dal patto corruttivo, oltre a potersi pienamente affermare la responsabilità penale del corrotto (o dei corrotti, in caso di coinvolgimento di più persone dal lato passivo della corruzione), laddove, come si auspica da tutte le parti, si ampliasse l’area dei reati presupposto anche alla corruzione passiva tra privati, anche l’ente del corrotto che non avesse adeguatamente governato i suoi processi interni di conformità sarebbe chiamata a rispondere del reato del suo “agente”.
L’eliminazione della querela per le ipotesi di corruzione tra privati, letta congiuntamente e coerentemente alla normativa sulla responsabilità degli enti e alla teoria aziendalistica dell’entità giuridica e dell’interesse primario dell’azienda, permette, dunque, il definitivo superamento di una concezione lealistica di tipo stampo privatistico: la lealtà, pure intesa come rispetto dell’interesse primario dell’azienda, è lealtà rispetto alle regole del gioco esterne ed interne e il bene giuridico tutelato dalla norma è .
Giungendo a questa conclusione, si rileveranno, anche, le ragioni di parallelismo tra lo statuto della corruzione pubblica e di quella privata, cogliendo le ragioni delle differenze che ancora persistono e che in certa misura, ad oggi, possono ritenersi anche utili all’affermazione di una cultura del rispetto delle regole di derivazione privatistica che governano – o che dovrebbero auspicabilmente governare – gli enti privati.
Sarà importante interrogarsi anche su come la legislazione (hard e soft law) in materia di prevenzione della corruzione all’interno delle amministrazioni pubbliche e le best practices sviluppate grazie al lavoro dell’ANAC (in particolare, Codici di Comportamento, conflitto di interessi, incompatibilità, inconferibilità e whistleblowing), possano essere “esportate” nel settore privato, al fine di prevenire tanto la corruzione pubblica quanto quella privata, sia a danno che a vantaggio dell’azienda.
Ultima riflessione riguarderà il fatto che questa nuova prospettiva applicativa della corruzione tra privati, il regime della responsabilità “penale” degli enti e la moderna concezione economico-aziendalistica dell’interesse primario dell’azienda impongono una riconsiderazione anche in tema di illeciti antitrust.
Partendo dalle difficoltà evidenziate dagli studiosi all’inizio del dibattito sull’esigenza di punizione della corruzione tra privati e, in particolare, dall’incongruenza di una tale preoccupazione in ordinamenti nei quali i fatti di corruzione tra privati più gravi in termini di impatto sul libero mercato, ovvero gli illeciti antitrust, non fossero penalmente perseguiti verremmo ad interrogarci sulle esigenze di criminalizzazione dei più gravi illeciti antitrust (cd. hardcore cartels) e sulla sussumibilità di quelli illeciti nel reato di corruzione tra privati
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